Bologna, 11 giugno 2007
I.
Stringhe elegie e radiocomandi
le teorie sul danno non ancora dimostrato
e infine un’ultima casella per le giornate
a riempire.
Non puoi credere se non alla luce del sole
(che a nessuno importi davvero)
II.
È così che sono le giornate, dentro un’equazione
da far tornare, dai tratti che definiscono
e identificano, pagine di libro che sfoglio
Guardavo un panorama notturno, prima di addormentarmi
dal fondo della stanza, al buio, e il silenzio sfogliato
poi: dall’alto si formavano suoni estranei, che altrimenti
suoni estranei che cadevano.
III.
A riconoscere il dentro perfettamente ci abbiamo provato,
che sfuggiva a tutti i tentativi più generali
tutti i fischi sottili ostili –soffiati- con le mani a coppa
e non potrà bastare una gita in macchina il venerdì pomeriggio
lontano dal groviglio imbrogliato degli umori sovrapposti
a danneggiare le supposte resistenze, l’impermeabilità interna
rivoltare i tumulti sommersi, assopiti e soltanto di vista, sussulti
sollecitarli con onde sonore, poi inciampando nella scolastica:
sfuggono, d’istinto coltivato negli anni più avversi e dormiti.
Sogni di latte e disordini.
Sogni di latte e disordini.
IV.
Ho una mano che trema e dal modo in cui lo fa
adesso so che la luce presa non cambia.
Ed è ancora pomeriggio.
V.
Curva voluta pesata ricoperta da strati di pelle fredda:
sulla plastica osservo il riflesso del mio naso e i capelli
cadono come foglie morte, dal ramo. E poi riprendo fiato.
Con gli oggetti intorno che raccolgono e assorbono
secondo le leggi della fisica classica, anche io, sterminata
infrango l’immagine statica di me sulla sedia impagliata
per alzarmi e allargare il campo delle azioni possibili
(lasciate tutte le controindicazioni del caso).
VI.
Attraverso le stanze vuote dell’appartamento ancora fresco
e lascio parlare l’arredamento, senza fermarmi o prestare attenzione:
qui una volta c’era qualcuno. Lo so dalle scie sul pavimento come schiuma
e bava di lumaca e le tracce di voci che sospirano e ridono e scherzano e discutono
e coprono i segni più profondi incisi e caduti in ogni luogo e sulle scale.
E allora: dove sono tutti questi corpi pensanti, dove sono tutti.
E dove hanno portato le cose: i vasi, i libri. Le tende.
Sulle pareti solo ombre lunghe di me e occhi e
congiunzioni congelate in rigide regole di pronuncia.
Chi ha incatenato me,
-anello della catena-,
fra la mia nuda esistenza
e il Niente intemporale e senza sogni
e grido*
VII.
Qualcosa distrae: una piccola ombra, un luccichio
imprevisto, come un sorriso tra la folla;
poi inevitabilmente ci si affeziona ad un gusto in particolare
e tutto quello che si sapeva non serve più.
Solo passaggi confusi di certezze, nel magma grigio dei pensieri
divenuti inaffidabili, dettati da un inconscio scaltro e subdolo,
in primo luogo egoista e bambino.
VIII.
Ciò che sappiamo del contraddistinguersi: nella
reazione, o indifferenza; Nel raccontare, e chiedere ancora
(e poi l’oltrepassare)
IX.
Arriva una sete aguzza che soffoca la gola
una vasocostrizione che vibrando suggerisce
trucchetti grassi e robusti, svelti e mancini
e poi oltre, altre improvvisazioni
sul tema del ricostruire
alle quali, un giorno, non si vorrà rinunciare.
*Herman Scherchen: Madre, da Mes Deux Vies. Récit Autobiographique.
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